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Definizione
La semiografia o notazione musicale è il sistema che stabilisce per iscritto una composizione, una melodia o una qualsiasi idea di suddetto ordine. La semiografia musicale è l’unione dei segni e dei simboli utilizzati per trasportare la musica in spartito fissando così li suono sulla carta. Essa è il frutto di secoli di studi ed evoluzione musicale, quindi è un sistema complesso e prodotto che racchiude in se tutti i modi necessari per scrivere qualsiasi suono o voce sia frutto di una tecnica musicale.
Il carattere creativo del fenomeno musicale sfugge ancora a moltissimi. Forse perché la musica non si tocca, non si vede (neanche nelle opere di teatro la parte strettamente musicale si vede), forse perché la musica non ha un significato preciso e irreversibile, non espone concetti precisi come fa la parola.
Giulio Confalonieri
Breve storia della notazione musicale
La storia della semiografia musicale è la storia della scrittura della musica, del sviluppo dei segni che i compositori hanno utilizzato per scrivere le proprie opere musicali.
Le prime affermazioni di notazione musicale ripercorrono alle civiltà antiche. Si trattava di notazioni primitive, fondate sull’utilizzo dei caratteri alfabetici. All’epoca del Medioevo cominciava a prendere forma la notazione moderna, per poi cristallizzarsi intorno il XVII secolo. A partire dal XX secolo si è rilevata la tendenza a usare grafie innovative.
1. La storia musicale scritta nella antica Grecia
La parola “musica” deriva da ἡ μουσικὴ τέχνη, che significa”arte delle Muse“. Effettivamente, il mito delle Muse è alla base del concetto classico della musica. Come le Muse erano figlie di Mnemosyne, così la musica era legata inevitabilmente, dalla capacità umana della memoria. Tanto è vero, i greci, come tutti i popoli dell’antichità fino al Medioevo, suonavano solo a memoria. La mitologia conferma questo punto di vista della cultura greca: la pena che le Muse inflissero al cantore Tamiri per averle sfidate consistette nel fargli perdere la memoria della sua arte; così Tamiri non riuscì più a suonare una nota.
Notazione alfabetica
La civiltà greca avendo grande considerazione della musica più sotto l’aspetto teorico che pratico, adottò il sistema della notazione alfabetica, servendosi di un alfabeto arcaico per la musica strumentale e dell’alfabeto ionico per la musica vocale. A ogni carattere corrispondeva un’altezza e per ingrandire il numero dei caratteri (e poter quindi segnare più altezze) venivano usate le stesse lettere capovolgendole o sistemandole in orizzontale. Da ciò si può dedurre che un sistema di codifica musicale esisteva. Dopo tutto, esistevano già molte biblioteche per il trasferimento dei testi: così infatti avvenne per le composizioni letterarie. La poca considerazione della musica pratica nell’antica Grecia, e conseguentemente nella civiltà romana, ci lascia poche testimonianze. La musica era considerata la scienza acustica, materia con pieno diritto di cittadinanza nel contesto dello studio teoretico complessivo. La musica pratica non era invece meritevole di essere trasmessa nel tempo. Ecco perché si hanno approfondite conoscenze sulla teoria musicale dei greci, ma non si può dire quasi nulla sulle loro composizioni concrete.
2. La notazione musicale nella musica liturgica dell’Alto Medioevo
Con l’affermazione del Cristianesimo, la notazione musicale è indirizzata ad affrontare un importante cambiamento. La musica liturgica è stata protagonista di una nuova forma di notazione: la notazione neumatica. Notevole fu l’interesse del mondo medievale per la scrittura musicale, con la breve parentesi di notazioni come la notazione sangallese, la notazione metense(appartenenti alla notazione adiastematica) e la notazione daseiana (che rappresenta il primo esempio noto di scrittura di musica polifonica). La straordinaria innovazione quella della scrittura gregoriana è di rappresentare graficamente l’andamento della melodia per mezzo di piccoli segni. Questi segni sono gli accenti grammaticali usati dai greci e dai latini nelle scuole di retorica, per segnalare un innalzamento o l’abbassamento della voce. Altri segni derivarono poi da diverse combinazioni di questi segni principali che venivano posti sopra le sillabe del testo da cantare, assumendo una posizione che graficamente raffigurava lo svolgimento della melodia e nello stesso tempo riprendeva il movimento della mano del direttore del coro che indicava ai cantori le varie intonazioni della voce. Ma con il monaco Guido d’Arezzo e il suo metodo detto “solmisazione” si mettono le basi di quella scrittura che sarà l’attuale scrittura musicale.
La notazione neumatica sangallese
Antifonario (1130 ca.) esempio di notazione musicale nel Medioevo con neumi che raffiguravano l’andamento della melodia
Mano guidoniano- Si tratta di un sistema mnemotecnico utilizzato per aiutare i cantanti nella lettura prima vista della musica. Spesso si trova nelle miniature recanti notazioni XV secolo.
Mano guidoniana
La notazione neumatica adiastematica, o in campo aperto
Il neuma (dal greco νεύμα neuma: segno, cenno, ma anche da πνεύμα: soffio, fiato o νόμος: melodia, formula melodica) nel canto gregoriano è un segno della notazione musicale usato a partire dal IX secolo e durante tutto il Medioevo, fino all’inserimento del tetragramma, che sta a dimostrare l’insieme di note che si trovano su un’unica sillaba. I neumi sono segni che nel contesto medievale costituivano le moderne note posizionate sopra ad unica sillaba del testo cantato in diverse altezze e in un sistema di righi con all’inizio di ogni rigo quelle che al giorno d’oggi chiamiamo chiavi.
l neuma trascrive una formula melodica e ritmica applicata a una singola sillaba. Si parlerà quindi di neuma monosonico se a una sillaba corrisponde una sola nota musicale o di neuma plurisonico nel caso dell’uso di più note su una singola sillaba. Nel caso del melisma che solo caratterizza lo jubilus nel canto dell’alleluia, vengono utilizzate anche decine di note in un unico neuma. Il neuma viene quindi distinto dall’elemento neumatico, il quale indica un segno unito in composizione ad altri che lo precedono o lo seguono su una singola sillaba.
Neuma melismatico in notazione quadrata.
Il neuma confronto a nota musicale
Il neuma già contiene dentro di sé ogni valenza che nella futura nota (dal latino notare, ‘scrivere’) si sarebbe fatta esteriore. Si consideri questo assunto sia per il parametro della durata che per quello dell’altezza, elementi primi di ogni notazione. La durata del neuma è in relazione con il χρόνος πρῶτος (‘tempo primo’, ovvero la durata di una sillaba o di una mora). La durata della nota è metricamente misurata. Ugualmente, nel neuma la diastemazia (διάστημα = ‘intervallo’) è sottintesa e relativa, perché, come l’accento melodico (non intensivo) delle lingue classiche, il neuma indica il sollevamento o l’abbassamento dell’intonazione. La nota rappresenta invece un’altezza assoluta, quindi un tono. Il neuma poteva indicare anche la qualità del suono: la nota è un approfondimento segnico di solo alcuni parametri del neuma (altezza e durata), perciò il neuma contiene già le informazioni della futura nota (anche se a livello relativo invece che assoluto).
In questo modo il neuma, creatosi verso la metà del IX secolo. Ha rappresentato il diretto precedente della notazione moderna e la prima forma di notazione musicale di assoluta rilievanza che non usa caratteri alfabetici, anche se la notazione neumatica era sempre legata al testo latino da cantare. L’andamento melodico era segnato, ma mancava l’assolutezza dell’indicazione diastematica. Da qui la denominazione di notazione neumatica adiastematica, o in campo aperto, in cui i neumi si facevano spazio, un po’ disordinatamente, al di sopra del testo latino.
Notazione dasiana
Nel IX secolo, duecento anni prima di Guido, mentre fioriva la notazione neumatica volta ad aiutare il cantore nell’esecuzione, in ambito carolingio veniva scritto trattato Musica Enchiriadis, un manuale passato alla storia per la presenza delle prime tracce di polifonia. Esso è il primo tentativo noto di stabilire una serie di regole per la composizione polifonica. La notazione ideata in questo trattato è la cosiddetta dasiana. Senza entrare nei dettagli ricordiamo che essa prevede dei righi ed il posizionamento dei testi su di essi, in modo che l’intervallo da intonare sia evidente.
Frammento del trattato Musica Enchiriadis
Notazione neumatica diastematica e notazione quadrata
Nel X secolo presso l’abbazia di San Gallo i monaci sviluppano una forma di notazione neumatica dove era fondamentale dimostrare la qualità del suono confronto alla sua altezza. Furono invece i monaci dell’Aquitania ad iniziare un’altra forma di notazione neumatica in cui l’altezza cominciava a liberarsi. Il trasferimento dall’adiastemazia alla diastemazia segnò un punto di svolta per la tradizione dell’apprendimento della musica orale.
Questa strada fu tracciata dal monaco benedettino Guido d’Arezzo, che intorno all’XI secolo iniziò ad utilizzare come linee musicali le linee a secco che i copisti disegnavano nei manoscritti. Guido d’Arezzo ottenne così un metodo per apprendere nuovi canti senza dover ricorrere all’orale: la solmisazione, una tecnica pratica basata su esacordi articolati. In questo modo il rigo musicale, composto da più linee distanziate da piccoli intervalli, consente di identificare l’altezza di un neuma tramite la sua posizione. L’altezza segnata dalle linee era affermata dalle lettere a sinistra o dal colore delle linee stesse. Si poteva incontrare, all’inizio di una riga, una ‘G’, una ‘C’ o una ‘F’, che avrebbero indicato relativamente— precorrendo la funzione delle moderne chiavi — il sol, il do o il fa. Ovvero la linea poteva essere di color giallo per indicare il do, rosso per il fa. Il sistema di righi più usato allora fu il tetragramma. Le linee erano quattro e gli spazi tre, per la prima volta furono dati i nomi alle note: Ut (in seguito Do), Re, Mi, Fa, Sol, La.
Tetragramma
Per aiutare i cantori, Guido usò le sillabe iniziali di ciascun emistichio della prima strofa saffica dell’inno Ut queant laxis composto dal monaco storico e poeta Paolo Diacono per segnare gli intervalli dell’esacordo musicale:
(LA) «Ut queant laxis ‖
Resonare fibris
Mira gestorum ‖Famuli tuorum,
Solve polluti ‖Labii reatum,
Sancte Iohannes.»(IT) «Affinché possano cantare
con voci libere
le meraviglie delle tue gesta
i servi Tuoi,
cancella il peccato
dal loro labbro impuro,
o San Giovanni»Da esso derivarono i nomi delle note Ut –Re–Mi–Fa–Sol–La
Nel XVI secolo la settima nota riceve il suo nome definitivo (Si, dalle iniziali di Sancte Iohannes) e nel XVII secolo in Italia la nota Ut diviene Do, per opera di Giovanni Doni (Do = prima sillaba di Doni)
Fu necessario aspettare il XV secolo affinché si imponesse il moderno pentagramma insieme con la notazione quadrata. Stavolta il progresso da notazione neumatica diastematica a notazione quadrata è più veloce che del passaggio da quella alfabetica a quella neumatica in campo aperto. I neumi si spostarono dalla loro naturale posizione sopra il testo, quasi come la punteggiatura, per collocarsi nel nuovo rigo musicale. Ciò significava che, i neumi venivano inseriti sulle righe o negli spazi del tetragramma, mostrando i problemi grafici di segnare delle piccole linee ondulate in una griglia distintamente evidenziata come il tetragramma. Le prime stesure pervenute del patrimonio musicale ripercorrono al XIII secolo. In questo contesto, in assenza della necessità di fornire una versione originale del testo musicale, la notazione scritta acquistò un valore di prestigio sociale, non strettamente musicale, perché le pergamene decorate erano create non ad utilizzo degli cantori esecutori, ma per le biblioteche aristocratiche, come simbolo della posizione sociale.
Esempi di notazione quadrata
L’introito Gaudeamus omnes, scritto in notazione quadrata nel XIV-XV secolo
Esempio di notazione in una miniatura del XV secolo
Sumer is icumen in’, canone medievale inglese di fine del XIII secolo, British Library.
Codice Squarcialupi, codice musicale manoscritto realizzato a Firenze agli inizi del XV secolo, Biblioteca Medicea Laurenziana (Firenze).
La nascita delle figure musicali (Dal Basso Medioevo all’Età moderna)
Al volgere tra l’XI e il XII secolo, con l’avvento della polifonia, iniziarono ad essere intonate diverse e simultanee linee melodiche, e quindi il ritmo, la durata e l’altezza dei suoni non potevano più restare nascosti. Si sentì l’esigenza di creare un sistema di semiografia musicale capace di esprimere chiaramente l’altezza e i valori di durata. Per quanto riguarda l’altezza dei suoni il neuma da indicarne un gruppetto era passato nel tempo a indicarne uno solo. Nel con tempo era nato il tetragramma. Erano comparsi codici dove i neumi invece di presentarsi in gambi e tratti avevano preso forma quadrata o romboidale.
La questione fondamentale era come indicare il ritmo di ogni voce che fa da contrappunto alle altre, cioè di ogni voce che dialoga con altre contemporaneamente, cosa che il discorso verbale non può implicare. Così, la necessità di segnare la sovrapposizione polifonica ha portato all’esigenza di trovare un dispositivo grafico che potesse rappresentarla. Ancora una volta, mentre nella notazione moderna la durata è indicata in modo assoluto tramite figure, cioè valori di durata, nella notazione modale è indicata in modo relativo, perché una nota è più o meno lunga a seconda della sua posizione tra le altre note
Notazione modale
All’inizio del XIII secolo la Scuola di Nôtre-Dame aveva generato ex novo un modo di indicare le durate: la notazione modale. Il segno elementare di questa notazione non era più il singolo neuma, ma un raggruppamento di neumi, detto ligatura, che, oltre all’informazione diastematica dei singoli neumi componenti, doveva comprendere l’informazione sul ritmo dell’intera ligatura, cioè le durate dei singoli neumi. Questa notazione era basata sui modi ritmici, creati da accenti lunghi e brevi e adottato dai piedi della metrica classica
Per quanto riguarda il ritmo e la durata dalla teorizzazione medioevale dei modi ritmici ( fine secolo XII) basati sull’equivalenza di date durate musicali e date durate della metrica classica e quindi basati sull’assunzione di determinate unità derivanti da quest’ultima, la (sillaba) Breve e la (sillaba) Lunga, si ebbero le unità di misura della ritmica e quindi l’individuazione, attraverso le loro combinazioni, di 6 diverse cellule, i modi ritmici per l’appunto, e dei relativi sequenze di due o più modi. Valutando le combinazioni di ligature e valutando le note isolate all’inizio delle diverse sezioni del brano si individuava il modo ritmico di appartenenza.
Dal secolo XII in avanti le importanti innovazioni nel campo della melodia, dell’armonia, e della ritmica indussero alcuni ingegni, musicisti e teorici insieme ( fra cui Philippe de Vitry, uno dei molti padri della notazione musicale) ad ampliare il campo della teoria musicale. Il trattato di Vitry “Ars nova” spiega i principi della nuova arte nella loro opposizione alla vecchia (Ars antiqua). Il sistema di notazione che esso stabilì è sotto molti aspetti simile al nostro attuale. Ad ogni modo, sebbene il nostro attuale rigo a cinque linee appaia per le prime volte già nel secolo XI fino al secolo XVII non vi fu un accordo generale sul suo impiego.
Notazione mensurale
Ma intorno alla metà del XIII secolo si venne a fissare una notazione che prese il nome di mensurale. L’esposizione sistematica della notazione mensurale compare nel trattato Ars Cantus Mensurabilis di Francone da Colonia ( 1260 ca). Francone crea un sistema chiaro partendo dagli ambigui simboli delle epoche precedenti. Egli fissa rapporti inequivocabili tra i grandi valori della Longa e della Brevis ed introduce come valori nuovi la Duplex Longa ( o Maxima) e la Semibrevis, quast’ultima però ammattendola solo in gruppi di due o tre note al posto della Brevis. Saranno i francesi del XIV secolo, aggiugendo un gambo, quindi chiamandola Semibrevis Minima, a renderla nuova figura parte integrante ed essenziale del ritmo, figura indipendente che può anche comparire da sola.
Nel XIV secolo con la notazione mensurale derivarono le figure e i segni di mensura (equivalenti alle moderne indicazioni metriche). Distinguendo, per note della stessa altezza, una forma diversa che ne indichi la durata, ogni segno grafico si faceva più univoco, in quanto poteva indicare un’idea solamente, cioè una sola altezza, e una sola durata, Questo passaggio fu determinante affinché la notazione musicale fosse in grado di farsi capire senza dover ricorrere alla parola o al testo musicato. La notazione mensurale poi aggiunto le figure per presentare note più brevi per indicare gli stessi valori delle epoche anteriori.
Notazione mensurale bianca
L’ultimo grado di questa evoluzione fu la notazione mensurale bianca, così chiamata perché verso la metà del XV secolo le note non erano più create nere, ma bianche, rimanendo tracciato solo il contorno. Questa modifica grafica portò con sé la manifestazione di nuove sfumature di significati, che in seguito si sarebbero perse: disponendo di note nere e note bianche,
Ciascuna delle prime tre figure Maxima, Longa e Brevis può valere il doppio o il triplo rispetto alla figura immediatamente più breve a seconda del contesto e nell’intento di formare apparati ritmici ternari.
Notazione moderna
La scrittura moderna della musica raggiunge all’inizio del XVII secolo. Con l’arrivo delle edizioni stampate la forma delle note si semplificò, diventando rotonda. In più si sviluppavano varie informazioni aggiuntive che hanno reso più dettagliata la scrittura di una composizione, come le indicazioni agogiche, dinamiche e di interpretazione. La tradizione scritta ha sostituito la tradizione orale proprio raggiungendo un grado di precisione più alto, tanto che la scrittura musicale è diventata il momento della composizione, quando fino al Medioevo la notazione appariva per fissare per iscritto ciò che prima era già stato generato e trasmesso oralmente. Quindi la notazione della musica è diventata strumento insostituibile per la composizione, l’esecuzione e la conservazione.
L’invenzione del pentagramma è attribuita al teorico musicale Ugolino da Forlì ( o Ugolino da Orvieto) (1380–1457).Nel secolo XVII si stabilizzo l’uso del pentagramma, costituito da cinque righe parallele. L’indicazione dell’altezza delle note, o più esattamente dell’altezza, relativa fra due note era stata risolta visivamente:un suono acuto, che dal punto di vista fisico ha un numero più elevato di vibrazioni. veniva posto più in alto di un suono grave, che ha un numero inferiore di vibrazioni. In quel momento fu certamente un evento rivoluzionario.
Intavolatura
In seguito si diffuse l’uso dell’intavolatura per gli strumenti a corda. Il sistema però, oggi comunemente utilizzato nella musica leggera per chitarra e basso, indica solo l’ordine in cui vengono premute le corde, senza precisare la durata delle note e differenziandosi nella struttura a seconda dello strumento di riferimento. Il più popolare all’epoca era quella per liuto. L’intavolatura era un sistema per scrivere la musica molto usato per gli strumenti polifonici a pizzico e a tastiera dei secoli XVI e XVII; questo sistema, anziché indicare l’altezza del suono, illustrava la posizione delle dita del suonatore sulla tastiera.
Intavolatura per liuto del XVII secolo Intavolatura per organo tedesca (1525) e sua trascrizione
in notazione moderna
Con la diffusione della stampa si può alla fine arrivare alla notazione moderna con l’aggiunta graduale di tutti gli elementi musicali a noi oggi conosciuti e inoltre la conferma di un sistema di scrittura e di lettura il più accurato possibile. E soprattutto, abbiamo una transizione dall’iscrizione della tradizione orale all’iscrizione della musica propria del compositore. Infine, il XX secolo sarà un periodo di nuove sperimentazioni.
Dai neumi in campo aperto alle grafie iperdeterminate, la semiografia della musica è diventata sempre più prescrittiva e specificata, perché spesso la scrittura della musica nasce dalla paura di dimenticare, restando sostanzialmente un sviluppato segno di memoria.
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François-Joseph FÉTIS:
“Il signor Chopin ha fatto ascoltare, nel concerto che ha dato il 26 [sic] di questo mese nei saloni dei signori Pleyel e Co. un concerto [op.11] che ha provocato tanto stupore quanto piacere nel suo uditorio (…) Il suo modo di suonare è elegante, spontaneo, aggraziato, ha brillantezza e pulizia.”
(Revue musicale VI/5, 3 marzo 1832)
H.T. POISSON:
“Ben presto è venuta fuori in Chopin la sapiente scuola pianistica tedesca, a cui è del tutto estraneo quel metodo francese che ha il difetto di picchiare i tasti. (…) L’impronta specifica che lo distingue, poiché ogni artista ha la sua, è la delicatezza squisita del tocco e la stupefacente vibrazione che riesce a conferire alle note. Ti fa quasi credere che il pianoforte abbia la facoltà di tenere i suoni, o di espanderli. Senza ricorrere a capricci estranei all’arte e a quel pomposo ciarlatanismo che ha il solo merito di crearsi ed esibire a comando difficoltà straordinarie, ma senza peraltro temerle, visto che di difficoltà la sua musica è irta, il suo grande merito è soprattutto l’arte di farle sparire. Certuni parevano stupirsi ‘delle pause’ che separavano le sue frasi e, se gli avessero dato un po’ meno credito, gli avrebbero rimproverato di non tenere il ritmo. A noi pare che costoro non si siano ancora del tutto familiarizzati con quel genere moderno di cui solo più avanti apprezzeranno il merito.”
(“Concert”, Journal Politique et Littéraire d’Inre et Loire, n°126, 8 settembre 1833, p.3)
H.BERLIOZ:
“Chopin è un artista a parte sia come esecutore sia come compositore; non somiglia a nessun altro musicista di mia conoscenza. Le sue melodie, tutte impregnate di forme polacche, hanno qualcosa di candidamente selvaggio che affascina e cattura proprio per la sua stranezza; nei suoi studi si trovano combinazioni armoniche di una profondità stupefacente; ha immaginato una sorta di ricamo cromatico, riproposto in parecchie sue composizioni, il cui effetto non si può descrivere tanto è singolare e penetrante. Purtroppo Chopin è l’unico a poter suonare la sua musica, a saperle conferire quell’originalità, quell’imprevedibilità che è una delle sue attrattive principali; la sua esecuzione è intessuta di mille sfumature di tempo di cui lui solo possiede il segreto e per le quali non c’è notazione.
Ci sono dettagli incredibili nelle sue mazurche; e ha anche trovato il modo di renderle doppiamente interessanti eseguendole con un grado estremo di dolcezza, con un ‘piano’ superlativo, nel quale i martelletti sfiorano appena le corde, al punto che si è tentati di avvicinarsi allo strumento e di porgere l’orecchio come si farebbe a un concerto di silfidi e folletti.”
(Le Rénovateur, II/345, 15 dicembre 1833)
August KAHLERT:
“Il suo modo di suonare è l’opposto di ogni tipo di pesantezza; si basa, al contrario, sulla più grande indipendenza reciproca delle dita e sul tocco più leggero che si possa immaginare. (…) Il suo suono non è grande sotto il profilo della quantità ma è eccellente per la qualità. Scartando ogni sonorità stridula e aspra (cosa a cui, in linea generale, il pianoforte è facilmente esposto) egli conserva un meraviglioso ‘cantabile’ perfino nei passaggi più fugaci; questo si avverte particolarmente negli ‘staccati’ e negli arpeggi più difficili. Ora, quel che si chiede qui all’esecutore [studi op.10] non può essere ottenuto se non quando si sia acquisita un’intima dimestichezza con la diteggiatura di Chopin. In particolare, terzo, quarto e quinto dito della destra sono sviluppati in modo stupefacente, a un grado di autonomia tale da consentire a una mano sola di suonare scale cromatiche di seste, sia ascendenti che discendenti, e nel tempo più rapido. Grazie alla rapidità e alla sicurezza dei suoi salti, sempre in leggerezza, e dei suoi ampi arpeggi, Chopin rimedia mirabilmente alle carenze in fatto di ‘cantabile’ proprie del pianoforte. (…) Per il resto, il pianismo di Chopin è imparentato, in una certa misura, col metodo di Clementi, che dev’esser stato la sua guida agli inizi (lo si avverte persino nelle più estreme difficoltà, inesplorate da Clementi).”
(“Über Chopin’s Klavier-Kompositionen”, Der Gesellschafter oder Blätter für Geist und Herz, 1834/3, p.165)
Anonimo:
“…bisogna proprio salutare in Chopin un maestro raro: esegue tutto questo [i suoi notturni op.9?, op.15? e alcuni studi] in modo da conquistare appieno la nostra ammirazione. Il suo modo di suonare è perfetto sotto ogni aspetto. C’è tutto: il suono, la potenza, la grazia infinita, la passione, la profondità dei sentimenti, la pulizia e la leggerezza di un’esecuzione che non lascia niente a desiderare e, cosa delle più notevoli, l’originalità nell’interpretazione delle sue opere, esse stesse originali per molti riguardi.”
(“Briefe aus Paris”, Neue Leipziger Zeitschrift für Musik I/15-16, 22 e 26 maggio 1834, pp.60 e 64)
Émile GAILLARD (allievo):
“Percuotere non è suonare… Chopin non pestava il suo pianoforte, ma sotto le sue dita ogni cosa riusciva mirabilmente. Quando la mano sinistra suonava un bel canto sgorgato dal cuore, avresti detto che la destra srotolava negligentemente tutta la magnificenza di un merletto sonoro. Il virtuosismo spariva dietro l’espressione delle emozioni e si era più commossi che abbagliati. Lui sembrava accarezzasse la tastiera, mentre la sua anima, sensibile e dolorosa, s’innalzava e aleggiava fra noi. Quando terminava un notturno, si aveva voglia solo di tacere per non turbare l’incantamento da cui si era presi. Anche lui, finito un pezzo, spesso restava in silenzio davanti al pianoforte, come seguendo un sogno interiore.”
(DÉCHELETTE, Journal des Débats, 28 dicembre 1934)
Anonimo:
“La categoria dei pianisti sicuramente presenta ecezioni; in particolare citeremo il signor Chopin, che preferisce il pensiero al ‘tour de force’, e che nelle sue composizioni, come nello stile esecutivo, si distingue sia per una correttezza di disegno che non ha niente di povero, niente di angusto o di troppo prevedibile, sia per un’originalità senza pretese, un ardimento senza esagerazioni, una brillantezza senza orpelli, un’energia senza violenza, e un’espressione sempre chiara, sempre sensata e davvero coinvolgente. Il signor Chopin è riuscito a cantare col pianoforte, che è il merito più raro nella specie dei pianisti; è riuscito soprattutto ad ammorbidire i suoni dello strumento in modo da togliergli un po’ di quel che hanno di secco e di slegato.”
(Le Pianiste, II/15, 5 giugno 1835)
C.WIECK:
“Chopin…Ha anche suonato un suo notturno, col ‘pianissimo’ più delicato, ma un po’ troppo liberamente”
(Tagebuch, Leipzig, 27 settembre 1835)
F.MENDELSSOHN:
“Chopin…mi ha di nuovo incantato…Nel suo modo di suonare c’è un’originalità radicale unita a una tale padronanza che egli merita davvero il nome di perfetto virtuoso.” (Lettera alla famiglia, Leipzig, 6 ottobre 1835)
R.SCHUMANN:
“Era già un quadro indimenticabile vederlo seduto al pianoforte, come un veggente perduto nei suoi sogni; vedere come il sogno da lui creato si traduceva nella sua esecuzione e come, finito ogni pezzo, avesse la funesta abitudine di percorrere con un dito tutta la tastiera gemente (‘glissando’) come per liberarsi potentemente dal suo sogno.” (GS,II, p.23)
Henriette VOIGT:
“Meravigliosa è la leggerezza con la quale le sue dita di velluto scivolano o piuttosto volano – dovrei dire – sui tasti. Mi ha rapita, non posso negarlo, in un modo che mi era ancora sconosciuto fino a oggi. Quel che mi ha affascinato è l’abbandono e la naturalezza trasmesse dal suo atteggiamento, così come dalla sua maniera di suonare.”
(Diario – Leipzig, 13 settembre 1836/NIECKS,I, p323 – ed.ted.)
Ferdinand HILLER:
“Nessuno ha mai animato i tasti di un pianoforte in quel modo; nessuno ha saputo estrarne le stesse sonorità, ricche di infinite sfumature. Nelle sue melodie, la fermezza ritmica si coniugava con la libertà della declamazione, di modo che sembravano nascere lì sul momento. Quello che per un altro era un elegante ornamento faceva nelle sue mani l’effetto di un trionfo floreale multicolore; ciò che per un altro era destrezza tecnica, in lui sembrava il volo di una rondine. (…) Perfino la mancanza di quella potenza sonora capace di imporsi, propria di Liszt, Thalberg e altri, veniva avvertita come elemento di fascino” (BU, pp.150-152)
Charles HALLÉ:
“Le composizioni di Chopin suonate da Chopin! Che gioia insuperabile! (…) Mentre Chopin suonava, io non riuscivo a pensare a nient’altro che elfi e danze di fate, talmente meravigliosa è l’impressione che si sprigiona dalle sue composizioni. Nulla in questa musica ricorda che è stato un essere umano a comporla. Sembra scesa dal cielo, così pura, trasparente e ideale.” (Lettera ai genitori – Parigi, 2 dicembre 1836/HALLÉ, pp.224-225)
“Il fascino meraviglioso, la poesia, l’originalità, la perfetta libertà e l’assoluta trasparenza del suono di Chopin a quell’epoca sono indescrivibili. Era la perfezione personificata. (…) Posso affermare in coscienza che nessuno è mai stato capace di eseguire le sue opere così come suonavano sotto le sue magiche dita. Quando l’ascoltavi, perdevi ogni capacità di analisi; non pensavi neppure un istante a valutare il grado di perfezione nell’esecuzione di questa o quell’altra difficoltà; mentre lo ascoltavi ricevevi tale e quale l’impressione che stesse improvvisando una poesia, e restavi sotto l’incantesimo per tutto il tempo che durava.”
(Autobiografia [verso il 1894-1895?]/HALLÉ, pp.31-4)
Iganz MOSCHELES:
“Il suo suonare ‘ad libitum’, che negli altri inteprreti della sua musica degenera in una scomparsa della battuta, in lui non è altro che il tratto più grazioso e originale del discorso musicale. Le modulazioni apparentemente brutali sulle quali inciampo quando suono le sue composizioni, sotto le sue dita delicate non mi turbano più perché lui ci scivola sopra come una silfide. Il suo ‘piano’ si effonde così simile a un respiro che non c’è bisogno di un ‘forte’ potente per produrre i contrasti voluti; così non si rimpiangono gli effetti orchestrali che la scuola tedesca richiede a un pianista, ma ci si lascia intrattenere come da un cantante che, poco preoccupato dell’accompagnamento, è tutto preso a seguire il suo sentimento. Insomma, è unico nel mondo dei pianisti.”
(Lettera – Parigi, metà ottobre 1839/MOSCHELES,II, p.39)
Otto GOLDSCHMIDT:
“Era estremamente debole, ma, grazie a quella notevole capacità tutta sua di graduare il tocco, il suo modo di suonare non tradiva ancora l’impressione di fragilità fisica che alcuni han ravvisato nel suo ‘piano’ o nella delicatezza delle sue esecuzioni. Possedeva, più di qualsiasi altro pianista che io abbia ascoltato, la facoltà di passare dal ‘piano’ a una dinamica superiore attraversando tutte le gradazioni intermedie.”
(OSBORNE, pp.102-3)
Antoine MARMONTEL:
“Ho ascoltato Chopin fin dal primo anno del suo soggiorno a Parigi, e le sue esecuzioni avevano già un fascino squisito, una sensibilità naturale, una sonorità soave, tenue, dovuta essenzialmente alla delicatezza del tocco e all’impiego tutto peculiare dei pedali. Alle sue qualità innate, legate alla natura nervosa, impressionabile, sensibile di Chopin, si aggiungevano anche quelle che erano frutto dello studio e della riflessione. La nota caratteristica e assolutamente personale del suo stile di compositore e di virtuoso era una sensibilità squisita e morbida, una disinvoltura piena di grazia e di abbandono, effetti imprevisti, come di impressioni istantanee, il fascino poetico dell’ispirazione unita alla perfezione ideale di esecuzione. (HP, pp.254-5)
Per quanto riguarda l’uguaglianza delle dita, la delicatezza del tocco, l’indipendenza perfetta delle due mani, Chopin discendeva evidentemente dalla scuola di Clementi, maestro di cui ha sempre raccomandato e apprezzato gli eccellenti studi. Ma Chopin era assolutamente unico nell’arte meravigliosa di guidare e modulare il suono, nella maniera espressiva, melanconica di sfumarlo. Aveva un modo tutto personale di attaccare il tasto, un tocco agile, vellutato, degli effetti di sonorità di una fluidità vaporosa di cui lui solo conosceva il segreto.
Nessun pianista prima di lui aveva impiegato i pedali, alternativamente o insieme, con tanta discrezione e abilità. Nella maggior parte dei virtuosi moderni, l’uso smodato e permanente dei pedali è un difetto enorme, un effetto sonoro che per orecchie delicate risulta faticoso e snervante. Chopin, al contrario, servendosi continuamente del pedale otteneva armonie incantevoli e mormorii melodici che stupivano e affascinavano. Poeta meraviglioso del pianoforte, aveva una maniera di comprendere, di sentire e di esprimere il suo pensiero che si è cercato spesso di imitare senza realizzare, salvo rare eccezioni, altro che maldestre parodie.
Se cerchiamo un punto di confronto fra gli effetti di sonorità di Chopin e certe tecniche della pittura, potremmo dire che questo grande virtuoso modulava il suono come i pittori i più abili trattano la luce e l’atmosfera. Avvolgere le frasi cantabili e gli ingegnosi passaggi arabescati in un chiaroscuro che sta tra sogno e realtà è il massimo dell’arte, ed era l’arte di Chopin.” (PC, pp.4-5)
Léon ESCUDIER:
“Poeta e, prima di tutto, poeta tenero, Chopin si adopera affinché sia la poesia a predominare. Egli crea prodigiose difficoltà di esecuzione, ma mai a detrimento della melodia, che è sempre semplice e originale. Seguite le mani del pianista, e osservate con quale meravigliosa facilità esegue i passaggi più graziosi, copre le distanze della tastiera, passa dal ‘piano’ al ‘forte’ e poi dal ‘forte’ al ‘piano’! I magnifici strumenti del signor Pleyel si prestano meravigliosamente a questi diversi procedimenti. Ascoltando tutti questi suoni, queste sfumature che si susseguono, si intrecciano, si separano, si riuniscono per arrivare a uno stesso obiettivo, la melodia, non vi sembra di udire delle vocine di fate che sospirano sotto campane d’argento, o una pioggia di perle che cadono su un piano di cristallo?”
(La France musicale V/9, 27 febbraio 1842)
Elizavieta CHEREMIETIEFF (allieva):
“Non so più come descrivere il suo modo di suonare. E’ qualcosa di così speciale che sotto le sue dita non riconosci più neppure lo strumento. Finalmente ho trovato uno che suona come qualche volta mi sono immaginata che si dovrebbe suonare, ossia alla perfezione; ha saputo dare un’anima al pianoforte. Questa delicatezza è qualcosa di così arioso, così traspirante, e allo stesso tempo i suoi suoni sono così pieni, così ampi. Ascoltandolo ti ritrovi in uno spazio indefinito, sospesa fra cielo e terra: è il modo in cui esprime i suoi pensieri. E’ veramente sublime; ogni nota ha un valore, un’idea che lui sa rendere benissimo. Nessuno degli elogi che si potrebbe rivolgergli sarebbe esagerato, ve l’assicuro. Si vede bene che lui sente tutto ciò che fa dire alla tastiera, si capisce. E’ un genio di gran lunga al di sopra di tutti i pianisti che stordiscono e alla lunga stancano. Lui può suonare tutto il giorno senza che vivenga in mente di dirgli basta; ogni suono va diritto al cuore. Quanto mi dispiace che non possiate ascoltarlo! (…) Ha suonato due notturni che ci hanno fatto quasi trattenere il respiro; qualcuno ha anche pianto. (…) Io trovo che suonare le sue composizioni è una profanazione; nessuno le capisce. Lui qualche volta non le suona neppure [?] a tempo, ma segue la sua ispirazione, e allora è davvero bello.”
(Lettera alla madre – Parigi, 11 novembre 1842)
George HOGARTH:
“Il signor Chopin…sembra abbandonarsi agli impulsi della sua fantasia e del suo sentimento, lasciarsi andare ai sogni e liberare, come inconsapevolmente, i pensieri e le emozioni che gli attraversano lo spirito (…).
Egli padroneggia difficoltà enormi, ma con tanta calma, tanta instancabile dolcezza, con una delicatezza e una finezza così costanti che l’ascoltatore non si rende conto del vero ordine di grandezza di quelle difficoltà. La sua esecuzione si segnala per questa delicatezza squisita, per la morbidezza limpida della sonorità, la rotondità perlata dei passaggi rapidamente articolati, mentre la sua musica si distingue per una libertà di pensiero, una varietà di espressione e una specie di malinconia romantica che sembra essere la predisposizione naturale del temperamento dell’artista.”
(Daily News, 10 luglio 1848,/HEDLEY,C, p.107)
Anonimo:
“Le esecuzioni del signor Chopin appartengono al genere più raffinato; la delicatezza della sua sonorità e la leggerezza dei suoi passaggi sono impareggiabili. Incantano l’orecchio, abituato alle percussioni della scuola moderna. (…) al contrario di tutti gli altri esecutori, che tentano di uniformare la forza delle dita, il signor Chopin mira a utilizzarle [secondo la loro conformazione naturale]. Da questo principio discendono il suo modo di trattare le scale e il trillo, come pure il suo modo di scivolare da un tasto all’altro con lo stesso dito e di passare il quarto sopra il quinto.”
(“Mr.Chopin’s Soirée Musicale”, Edinburgh Advertiser, 6 ottobre 1848)
Barone di Trémont:
“Abbandonato alla sua ispirazione, Chopin non arretra di fronte a nessuna ‘complicazione’ di armonia, di tecnica o di diteggiatura, e molti passaggi perfettamente chiari sotto le sue mani, suonati da altri pianisti risultano confusi e ingarbugliati. Dunque solo degli sprovveduti potranno ‘credere’ di far ascoltare la sua musica meravigliosa, mentre una parte delle sue bellezze non sarà percepita. Se non si hanno le dita molto lunghe e sottili bisogna rinunciarci, perché si incontrano fino a intervalli di dodicesima; altrettanto difficile è suonare spesso molto ‘legato’. Anche gli arpeggi sono molto brillanti.”
(1849) (F.Chopin, Célèbre/pianiste et compositeur, pp.115 e 117-8, da una annotazione autografa)
Georges MATHIAS (allievo):
“…chi ha ascoltato Chopin può ben dire di non aver mai più sentito nulla di paragonabile. Il suo modo di suonare era come la sua musica; e che virtuosismo! che potenza! Sì, potenza! Solo che durava al massimo poche battute; e l’esaltazione, e l’ispirazione! Tutto l’uomo vibrava! Il pianoforte si animava della vita più intensa, era così meraviglioso che dava i brividi. Continuo a ripetere che lo strumento che si udiva quando suonava Chopin non è mai esistito se non sotto le sue dita: suonava come componeva…” (P, p.5)
Wilhelm VON LENZ (allievo):
“…come suonava Chopin l’op.26 di Beethoven? (…) Era un mormorio a ‘mezza voce’, ma impareggiabile nella melodia, con una perfezione infinita nella continuità e nel concatenamento delle frasi: idealmente una bella esecuzione, ma ‘femminile’! (…) Tutti son rimasti incantati; anch’io restai incantato, ma solo dalla sonorità di Chopin, dal suo tocco, dal fascino elegante e dalla grazia, dalla purezza dello stile.”
(GVP 1872, pp.77-8)
Anonima scozzese (allieva):
“Sotto le sue dita il pianoforte ‘cantava’ per davvero, e in tante maniere. (…) Non si pensava mai all’ ‘esecuzione’, ancorché fosse prodigiosa. La musica sembrava provenire dagli abissi di un cuore per parlare al cuore degli ascoltatori.” (Lettera a J.C.Hadden – 27 marzo 1903/HADDEN, p.159)
“Poi Chopin prese il mio posto ed eseguì la sonata [op.26] dal principio alla fine. Fu come una rivelazione. (…) Suonò la Marcia funebre con un effetto grandioso, orchestrale, potentemente drammatico, e tuttavia con una specie di emozione rattenuta impossibile da descrivere. Poi si lanciò nel finale con una precisione impeccabile e una straordinaria delicatezza (non una sola nota è andata persa), con un fraseggio meraviglioso e alternanze di ombre e di luce. Noi restammo muti, non avevamo mai inteso nulla di simile.”
(Lettera a J.C.Hadden – 27 marzo 1903/HADDEN, pp.157-8)
Sophie LEO:
“Chi non ha ascoltato le composizioni di Chopin suonate da lui non immaginerà mai come la più pura ispirazione, senza alcun riguardo per tradizione, approvazione o biasimo, si lasci trasportare sulle ali del genio. (…) La sua persona era delicata, aggraziata, delle più affascinanti; l’uomo completo non era che respiro, un essere più spirituale che corporeo e, come la sua maniera di suonare, pura armonia. Anche il suo modo di parlare somigliava alla sua arte: dolce, arioso, come un mormorio (‘weich, schwebend, rauschend’). Di padre francese e madre polacca, assommava in sé le inflessioni latine e slave nel più puro accordo. Il pianoforte sembrava che lo toccasse appena! Veniva da pensare che avrebbe potuto giungere allo stesso risultato anche senza l’intermediario dello strumento. Quando suonava non si pensava più alla tecnica, si ascoltava il mormorio flautato [della sua musica] e si immaginava di udire delle arpe eoliche mosse dal soffio etereo dell’atmosfera. E con questo talento unico, Chopin era cortese, modesto, senza alcuna pretesa! Non era un pianista della scuola moderna; si era creato la sua arte tutto da solo in base alla sua visione, ed era qualcosa di indescrivibile.
Nei salotti come nelle sale da concerto avanzava lentamente, modestamente verso il piano, si accontentava del primo seggiolino che capitava, segnalando immediatamente, con la semplicità del suo abbigliamento e la naturalezza del suo contegno, quanto gli fosse estranea ogni forma di esibizionismo, ogni ciarlataneria. Senza alcun preambolo, partiva subito la sua esecuzione, piena di passione e profondamente sentita.”
(Erinnerungen aus Paris, pp.192-5)
Solange CLÉSINGER (figlia di Georges Sand e di Casimir Dudevant):
“Sotto le dita agili e nervose della piccola mano pallida e gracile di Chopin il pianoforte diveniva una voce d’arcangelo, un’orchestra, un esercito, un oceano infuriato, la creazione dell’universo, la fine del mondo. Che maestà divina!…”
Aurore LAUTH-SAND (figlia maggiore di Maurice Sand-Dudevant e nipote di Georges Sand):
“…A Nohant le due ragazze della casa, Solange e Augustine, prendevano lezioni da Chopin. (…) Augustine voleva diventare abbastanza brava da diventare una professionista. Dunque, negli anni che Chopin passò a Nohant fu un’allieva attenta e seria. Quando la incontrai, verso la fine della sua vita, mi disse: “Il maestro aveva un tocco diverso da chiunque altro. Quale che fosse lo strumento, lui ne cavava suoni che non sembravano provenire da un pianoforte. Il suo modo di suonare era morbido, come ‘velato’, e così delicato che alcune note risuonavano come ‘sospirate’. Gli accordi non esplodevano mai con fragore; risultavano dolci malgrado una forza che si percepiva dalla loro risonanza. Sotto le sue piccole mani, piuttosto corte e nervose, il pianoforte raggiungeva un grado d’espressività del tutto differente da quello che normalmente ottiene qualunque altro esecutore. E’ inutile cercar di confrontare il suo modo di suonare con quello di un altro pianista. E se si volesse, non dico imitarlo, ma cercare di entrare nel suo modo di suonare, bisognerebbe tentare di ‘esprimere’ la sua musica con una delicatezza che non abbia nulla di melenso, ma che somigli a un’espressione che trascende lo strumento e di cui lo strumento sia l’inteprete discreto e obbediente.”
(Chopin à Nohant. – Debuts du théâtre de Georges Sand)
Julian FONTANA:
“Fin dalla più tenera età la ricchezza delle sue improvvisazioni era stupefacente. Ma lui si guardava bene dall’esibirla; i pochi eletti che l’hanno ascoltato improvvisare per ore e ore, nella maniera più meravigliosa, senza che mai neppure una frase richiamasse alla memoria un altro compositore, e tantomeno una delle sue stesse opere, concorderanno con noi se affermiamo che le sue più belle composizioni non sono che un riflesso, un’eco della sua improvvisazione.”
(Prefazione alle “Oeuvres posthumes de F.C.”, pp.1-2)
Conte Rainulphe II d’Osmond:
“Ogni nota in Chopin ha un valore speciale e dev’essere resa con una differenza di intensità che nessuno rispetta più. Dove lui suonava lentamente, ora si va veloci, dove lui accellerava, ora si rallenta… Cagionevole, nervoso, fragile e idealista all’eccesso, Chopin ha sempre cercato di sfuggire il più possibile alla morsa matematica… che l’implacabile divisione in battute infligge alla musica. La sua opera, innanzi tutto, è basata sul ‘lasciar fluire’ le sensazioni dell’anima. L’imprevisto, la fantasticheria sono state le sue guide… e per suonarlo bisogna accettare prima di tutto questi coefficienti. Facendo del pianoforte uno strumento di canto… ha saputo fargli realizzare delle sonorità fino allora sconosciute avvolgendole, con un’abilità senza pari che dobbiamo chiamare genio, con una pioggia di scale, arpeggi, enarmonie il cui intreccio, senza mai nuocere all’interesse della melodia principale, dava al suo Pleyel una vita… che chi non l’ha conosciuto non può neppure sospettare.”
(“Chopin”, Reliques et impressions, pp.281-284)
Karol MIKULI (allievo):
“…Chopin era in possesso di una tecnica tra le più avanzate, in grado di dominare completamente lo strumento. L’uguaglianza delle sue scale e dei passaggi rapidi era insuperabile, con ogni tipo di tocco, davvero favolosa. Sotto le sue dita, il pianoforte non aveva nulla da invidiare all’archetto del violino né alla colonna d’aria vibrante degli strumenti a fiato: i suoni si fondevano con le sfumature proprie dell’arte vocale più perfetta.
Una mano da pianista nato, non tanto grande quanto straordinariamente elastica, gli permetteva di spezzare gli accordi più estesi e di dominare gli arpeggi più dilatati che proprio lui aveva introdotto nella scrittura pianistica con un’audacia mai vista prima; e tutto senza che fosse visibile il minimo sofrzo. Del resto, la felice libertà e la naturalezza erano le caratteristiche distintive del suo modo di suonare. Inoltre il suono che sapeva trarre dallo strumento aveva sempre una grande ampiezza, specialmente nel ‘cantabile’; tutt’al più, sotto questo aspetto, soltanto Field si poteva paragonare a lui.
Poteva imporsi con una virile e nobile energia collocata nei punti giusti – energia senza brutalità – così come poteva incantare l’ascoltatore con la dolcezza del suo tocco espressivo – dolcezza senza affettazione. Con tutto il calore che Chopin metteva nel suo modo di suonare, così personale, ciò non impediva mai alla sua esecuzione di essere misurata, casta, elegante, talvolta perfino singolarmente riservata. (…)
Nel tenere il tempo Chopin era inflessibile, e molti saranno sorpresi di sapere che il metronomo non mancava mai dal suo pianoforte. Anche nel suo ‘rubato’ di cui si parla tanto, una mano (quella che ha la parte dell’accompagnamento) continuava a suonare strettamente a tempo, mentre l’altra (quella che canta la melodia) liberava da ogni costrizione metrica l’essenza dell’espressione musicale, ora ritardando indecisa, ora anticipando, animata da una sorta di veemenza febbrile, come colui che si infervora nel parlare.
Benché Chopin suonasse soprattutto composizioni sue, conosceva perfettamente a memoria (una memoria vasta quanto precisa) tutte le opere grandi e belle della letteratura pianistica; soprattutto Bach, ma è difficile dire se amasse di più Bach o Mozart. In questi autori la sua esecuzione raggiungeva una grandezza ineguagliabile. (…) Naturalmente anche Beethoven era vicino al suo cuore. Chopin suonava con una chiara predilezione le opere di Weber, in particolare il ‘Concertstück’ e le sonate in la bemolle maggiore e in mi minore; la fantasia, il settimino e i concerti di Hummel; il concerto in la bemolle maggiore e i notturni di Field, in cui improvvisava fioriture di grandissimo fascino. Quanto alla musica virtuosistica di ogni genere, che proprio a quell’epoca faceva ovunque spaventosi disastri, io non ne ho mai vista sul suo leggio.” (MIKULI, pp.2-3)
[da: Chopin visto da chi l’ha ascoltato, in: Jean-Jaques Eigeldinger – “Chopin visto dai suoi allievi” – Casa Editrice Astrolabio, 2010 – titolo originale in francese: “Chopin vu par ses élèves” (Neuchâtel 1970 – Eng. trans.: “Chopin: pianist and teacher – as seen by his pupils”, CUP 1986)]
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Le domande che generazioni di musicisti, e non solo, si sono posti. Come possono svilupparsi immagini sonore nella mente di un sordo? Seconda domanda: come poteva Beethoven dare la definizione perfetta e compiuta alle sue idee musicali?
Per nostra fortuna esiste la testimonianza davvero significativa, viene riportata da un giovane musicista, Louis Schlösser, che incontrò Beethoven a Vienna più volte tra il 1822 e il 1823. ( la testimonianza si trova, ad esempio, in Sonneck 1926, pp 132-148 ) Il punto più importante è sicuramente quello in cui Schlösser, dopo aver sottoposto alcune composizioni al giudizio di Beethoven, gli chiede quale sia il suo metodo di composizione. Ecco la risposta: Continue Reading…
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ARTE E VITA QUOTIDIANA
NELL’AGENDA DI ROBERT SCHUMANN
di Quirino Principehttp://antoniopisacane.com/arte-e-vita-quotidiana-nellagenda-di-robert-schumann/
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Chiunque voglia ricostruire la biografia di un uomo meritevole di ricordo sa da quali documenti primari si deva partire: da lettere, diari, memoriali e scritti autobiografici. È noto che i musicisti hanno lasciato quasi sempre tracce di sé in folte corrispondenze epistolari, mentre sono avari di lasciti diaristici e memorialistici. È difficile considerare un diario i Quaderni di conversazione di Beethoven, documento unico nel suo genere per la necessità dolorosa che ne fu lo stimolo. Fra i più generosi di annotazioni quotidiane, Chopin, Debussy, Schönberg. Di pagine autobiografiche e di memorie ci hanno fatto dono Berlioz, Wagner, Stravinskij. Reticenti, invece, Brahms, Schubert, Berg. Continue Reading…
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Storia della musica5 Min Read
26 MARZO 1828
Primo anniversario della morte di Beethoven: quella sera
FRANZ SCHUBERT
assistette per la prima volta a un
CONCERTO PRIVATO DEDICATO A SUE COMPOSIZIONI
organizzato dalla Gesellschaft der Musikfreunde di Vienna nel Palazzo del Tuchlauben al n. 12 (vedi foto nei commenti). Tutti occupati i trecento posti. I migliori musicisti di Vienna risposero all’invito, e suonarono senza alcun compenso. Il successo di quella serata rende euforico il compositore: “Con questo concerto ho ritrovato il più grande coraggio”, scrisse. Gli restavano otto mesi da vivere (*) Continue Reading…
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Storia della musica6 Min Read
Si riproduce qui la cronaca, pubblicata nella «Gazette musicale»del 2 maggio 1841,di uno dei rarissimi concerti dati in pubblico da Chopin a Parigi; il cronista è Franz Liszt.In essa risalta l’assoluta singolarità e il peso della presenza di Chopin nel panorama musicale europeo degli anni Trenta e Quaranta; è altresì palese l’attribuzione arbitraria di “significati” alla musica di Chopin,e il forzato collegamento con la letteratura ( in questo caso l’analogia istituita fra i preludi di Chopin e la poesia di Lamartine intitolata «Les Préludes»: qui evidentemente Liszt attribuisce a Chopin un’intenzione ch’egli stesso attuerà poi nel proprio secondo poema sinfonico,intitolato appunto«Les Préludes»).(Da: E.Ganche,«Frédéric Chopin»,Mercure de France,Paris 1926 Continue Reading…